dal Nuovo Dialogo del 12 Marzo
Sul significato e sulle ricadute del viaggio in Iraq di Papa Francesco abbiamo parlato con don Francesco Tenna, direttore dell’Ufficio diocesano per il dialogo ecumenico ed interreligioso.
Quale significato bisogna attribuire a questo viaggio del Santo Padre in Iraq?
Da un punto di vista storico, si tratta di un evento di indescrivibile portata, che dà attuazione al desiderio che la Santa sede e Papa Francesco in prima persona da lungo tempo esprimono, come altissimo compito di servizio alla comunione e alla pace. Poi, nello stesso tempo, è evidente che si ritrovano nella storia stessa le radici comuni, che risalgono alla Genesi. Il portato profetico di questo viaggio è evidente, esso fa vedere il volto bello della Chiesa da un punto di vista religioso, fa sentire il vero profumo della fede nella vera natura di Dio, che aborrisce la violenza, il fratricidio, la guerra. Con questo viaggio si dà attuazione pratica alla dichiarazione firmata ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, in occasione della visita del Papa del 2019, che aprì le porte a questo dialogo costruttivo.
Ma ritiene che la gente, distratta magari da altri eventi di varia natura, abbia potuto cogliere pienamente il significato di questo viaggio?
Non nascondo che forse è passato un po’ in sordina. Per quanto i media abbiano trasmesso gli eventi essenziali e le celebrazioni, è mancata una adeguata sottolineatura. Certo, per gli addetti ai lavori, il messaggio è arrivato. Per il mondo islamico, poi, il fatto che una figura così importante come il Grande Ayatollah Ali al-Sistani abbia accolto il Papa, è stato un evento molto importante. Ma gli estremisti sono dappertutto: tra i cattolici, vedi le critiche rivolte a Francesco, come tra gli islamici, ma al cuore del vero credente il messaggio è arrivato chiaro. Poi qualcuno ha potuto chiedersi se in un tempo come quello che stiamo vivendo, con la pandemia, era necessario… ma penso che sta a ognuno di noi dare la giusta eco a un così importante viaggio per la pace, che proprio in questo tempo deve essere sempre al centro, poiché anche dalla pandemia, come ha detto Francesco, si esce solo insieme.
Forse, ai nostri giorni, è più facile pensare a un dialogo “politico” e diplomatico tra i popoli che si affacciano sul Mediterraneo, che non a un dialogo interreligioso, dato che proprio la religione è stata vista fino ad oggi come l’elemento maggiore di separazione.
Ed è invece proprio la chiave per un dialogo costruttivo tra i popoli. Dobbiamo noi per primi ammettere che il dialogo ecumenico e interreligioso è ancora abbastanza giovane. È arrivato, infatti, solo con il Concilio Vaticano II, conclusosi circa 55 anni fa, e con i più recenti documenti, e si tratta di un periodo piuttosto breve nella dinamica della Chiesa. Ma a frenare è soprattutto l’erroneo pensiero che il dialogo presuppone la rinuncia a una parte della nostra identità. Invece non è affatto così: è proprio la mancata consapevolezza della nostra piena identità che ci rende timorosi a dialogare con che è diverso da noi.
Ma non sarà anche colpa di una fede ancora troppo infantile se non riusciamo ad aprire il cuore agli altri, ai diversi da noi?
No. Si tratta di una questione prettamente umana: il diverso ci spaventa e crea in noi dei dubbi. Riteniamo a priori che egli sia incapace di insegnarci qualcosa. Il paradigma della questione sta tutto nella autorefenzialità, nei meccanismi di difesa che scattano sempre nei confronti degli altri, quanto più essi sono diversi, anche in ambito religioso. Invece il diverso da noi è una risorsa, per questo dobbiamo partire da una conversione in ambito umano ancor prima di confrontarci e dialogare. Il papa ha pronunciato il nome di Dio riferendosi alle dinamiche umane che spingono a rinnegare la violenza e la guerra. Tutti siamo orientati al rispetto della vita, ma se parliamo in nome di Dio non siamo più nell’ambito del filantropismo, ma stiamo testimoniando tutti la nostra fede come figli di Dio.